LE PROVOCAZIONI DEGLI ADOLESCENTI

 

di Giovanni Re e Federica Rovetta

 

L’adolescente provoca.                              “Perché?”, si chiede il genitore.

 

Quasi sicuramente il figlio otterrebbe di più se assumesse un atteggiamento più maturo, se parlasse apertamente, se chiedesse gentilmente; così invece spinge al rifiuto, al “ti sistemo io…, ti metto al tuo posto…, non sono il tuo zerbino”, a una presa di forza, salvo poi sentirsi incolpa per essere genitori autoritari, rigidi e…aprire così la porta al passaggio ad atteggiamenti morbidi, fino ad arrivare alla mollezza, alla resa nell’impotenza.

 

L’adolescente provoca con il silenzio, il voltare le spalle, una bugia, il marinare la scuola, un insulto, lo sbattere della porta, la polemica, un piccolo furto domestico, il rompere qualcosa… insomma una trasgressione alle regole implicite o esplicite della famiglia, di solito accompagnata da aggressività verso sé e/o gli altri.

 

L’adolescente che provoca “agisce” un conflitto interiore portandolo all’esterno, mettendolo in scena così da alleviare la tensione interna e chiedere aiuto senza chiederlo, e, individuare, definire i propri valori in confronto/scontro con quelli dell’adulto:

tanto meno l’adulto si manifesta tanto più forte può essere la provocazione o la squalifica.

 

Le provocazioni fuoriescono da serbatoi di paure, rabbie, problemi irrisolti che fanno sì parte del periodo adolescenziale ma spesso hanno le radici in fasi precedenti.

 

Evidenziamone alcuni:

 

il timore di essere aggrediti e squalificati porta spesso ad aggredire e squalificare;

 

rabbia nei confronti dell’adulto che si sottrae o sembra sottrarsi al rapporto;

 

quando non si trova altro modo per esprimersi, per far valere le proprie esigenze, prima fra tutte quella di esserci, di contare qualcosa;

 

essere abituati ad avere un’esperienza della realtà in cui dominano incontrastati il proprio punto di vista, le esigenze personali, senza confronto con quelle altrui e con i limiti della realtà stessa; tale atteggiamento trova complicità in quello iperprotettivo e permissivista dell’adulto; la frustrazione inevitabile conseguente al fallimento del   “Io sono il centro del mondo e faccio sempre quello che mi pare” scatena insofferenza, rifiuto, evitamento e aggressività;

 

innalzamento dei figli al ruolo di pari grado con i genitori per cui qualsiasi decisione dell’adulto deve essere contrattata, avere il loro previo consenso.

 

 

E’ nel rapporto empatico e contemporaneamente distaccato coi figli, che si possono intravedere le motivazioni del loro comportamento.

 

Si è tentati di intervenire immediatamente, sotto la spinta della provocazione, dell’ansia, del timore che il problema degeneri;

in famiglia si vorrebbe sempre la serenità.

 

Invece spesso prima di intervenire è utile dedicare tempo e attenzione alla semplice osservazione del figlio/a, con la curiosità di un antropologo che osserva e raccoglie dati senza giungere a conclusioni affrettate.

Come si manifesta il problema concretamente? Cosa fa in dettaglio? Quando? Con chi? E con chi invece no? In quali situazioni concrete? Con quali intensità e frequenza?

Ciò aiuta a non drammatizzare, a non far diventare una difficoltà un problema.

 

 

Come rispondere alle provocazioni?

 

Prima di mettere in atto una strategia di intervento mirata alla specifica provocazione è utile fare riferimento ad alcune linee guida.

 

  • Non etichettare (“sei sempre aggressivo…, lazzarone…, non ascolti mai…). Una volta etichettata una persona si è portati a ricercare e sottolineare tutti gli atteggiamenti che confermano la diagnosi e a sottovalutare e a trascurare gli altri aspetti.                                                                                                       Ciò comporta fare da specchio deformante al figlio che si riflette in modo negativo o prevalentemente negativo.                                                          
  • Inoltre la definizione negativa insistentemente imposta può diventare la “profezia che ai auto avvera”: se dal figlio ci si aspetta che sia “negativo”, questi si comporterà in modo da corrispondere alle nostre attese (effetto Pigmalione).                                                                                                       
  • E’ utile invece osservare e rimarcare le eccezioni al comportamento negativo “…ma veramente sei riuscito a fare questo…, sei stato così bravo da…”.                                                                        

 

  • Abbandonare il pregiudizio per cui il figlio desiderato, amato, seguito, con cui c’è sempre stato un buon rapporto, debba essere sempre felice, non debba avere mai momenti di tristezza, noia, rabbia.                                                   
  •  E’ opportuno non dare spazio a tali pregiudizi colpevolizzandosi di non essere bravi genitori o colpevolizzando i figli di ingratitudine.
  • Puntare a interventi piccoli, minimali, non richiedere cambiamenti radicali, conversioni miracolistiche.                                                                        Piccole variazioni significative, se ben mirate, producono gradualmente, in una reazione a catena, risultati soddisfacenti.                                                           La pretesa di cambiamenti riguardo a sentimenti e sensazioni spesso suona irrealistica, ad esempio: “Ti deve piacere andare a scuola, studiare.”            Gli obiettivi vanno formulati ai ragazzi esprimendo quello che si vuole, non quello che non si vuole; ad esempio “ricordati di …” invece che “non dimenticarti di…”. Infatti anche gli studi sul linguaggio ipnotico e persuasivo lo confermano: le affermazioni sono più immaginabili, rappresentabili, delle negazioni.

 

  • Negli obiettivi, regole, dati ai figli è auspicabile il previo accordo dei genitori tra loro.                                                                                                         Il tempo dedicato a raggiungere l’accordo è ben speso; serve a chiarire, sciogliere resistenze, rafforzare la convinzione. Infatti spesso il disaccordo tra i genitori comporta l’annullamento delle forze: uno scava, l’altro riempie.     Tuttavia, a volte, è preferibile manifestare ai figli i diversi punti di vista in quanto far finta di crederci sarebbe peggio.

 

 

Dato che non si possono seguire regole che contraddicono la nostra esperienza emotiva, poiché il rischio è di fallire dopo i primi tentativi e sentirsi preda dell’impotenza e della frustrazione, è utile considerare che ciò che abbiamo vissuto agisce ancora dentro di noi, a volte senza che ce ne rendiamo conto, ed è con questa antica esperienza che dobbiamo confrontarci e, possibilmente, sanare eventuali ferite.

 

Riflettere e cercare di scoprire cosa è rimasto in ciascuno dell’adolescente che si è stati e cosa del rapporto coi genitori ancora opera è necessario e l’esperienza del rapporto coi figli è un’opportunità:                                                                        educando ci si educa e aiutando a crescere si cresce.