I FIGLI CI PARLANO CON I LORO COMPORTAMENTI:

COME INTERPRETARLI E QUALI RISPOSTE DARE

 

OSSERVARE ASCOLTARE SENTIRE

 

Occorre innanzitutto OSSERVARE, un’osservazione quanto più possibile “pura”, cioè pulita da aspettative nei confronti dei figli e di se stessi.

 

Dai figli ci si aspetta spesso che essi confermino le nostre opinioni su di loro,

in positivo o in negativo.

Non me lo sarei mai aspettato da te” pronunciato con aria scandalizzata quando rispetto a loro abbiamo sempre aspettative alte, idealizzate.

Oppure “tanto per cambiare…, al solito…” detto con rassegnazione e amarezza, quando i loro atteggiamenti non corrispondono ai cambiamenti desiderati nei tempi previsti.

 

Abbiamo anche aspettative su noi stessi come genitori, educatori; abbiamo infatti interiorizzato un modello di essere genitore, educatore a cui cerchiamo di corrispondere e quando questo non succede ci si sente inadeguati, in colpa.

Ad esempio il buon genitore non deve mai alzar le mani, oppure il buon genitore è capace di farsi ubbidire senza gridare o perdere le staffe; e ancora se si è buoni educatori automaticamente i ragazzi si comportano bene.

 

Occorre invece osservare come un antropologo che si imbatte in indigeni di tribù sconosciute. Osservare con pazienza, curiosità, rispetto, disponibilità, senza pregiudizi.

E’ una persona diversa da noi.

Osserviamo la postura, i gesti, il respiro, il volto, gli occhi… quando è solo/a e quando interagisce con altri.

 

ASCOLTARE. Ci sono parole, frasi, espressioni che ripete in continuazione?

Qual è la sfumatura, il tono emotivo associato a tali frasi?

A chi sono rivolte, in quali momenti, dove, a seguito di qualcosa o no?

Qual è l’emozione predominante nel suo parlare?

E’ esplicito, o per arrivare a dire ciò che vuole percorre labirinti?

Usa modi di dire per intendere qualcos’altro o dice bugie?

Parla in continuazione o telegraficamente?

Si fa ascoltare o quando parla ingenera distrazione, non richiama l’attenzione su di sé?

Con chi è più aperto, confidenziale, con chi è chiuso?

 

Oltre alle parole ci sono suoni e silenzi.

 

Il suono, liberato dalla parola, spesso ha un’impronta emotiva più istintiva e autentica. Esempio. Ah: soddisfazione, liberazione; oppure Grrr: aggressività rabbia; o ancora bleah: schifo, disgusto; oppure pfff: espellere, quando si è troppo carichi.

 

I silenzi, apparentemente simili ma diversi uno dall’altro, possono significare assenza, concentrazione, coinvolgimento, indifferenza, contenitore di un’emozione, ossia un silenzio carico di…

 

SENTIRE. Sentire non con le orecchie, ma col corpo; sentire nei nostri organi,

sulla nostra pelle.

Viene in vari modi definito: “induzione emotiva, senso sentito, sesto senso…”.

E’ un qualcosa che esiste da sempre nell’uomo: la capacità di percepire le

emozioni proprie e altrui anche in assenza di comunicazione verbale.

Ad esempio parlando con qualcuno posso sentire costrizione al petto,

tachicardia, sonnolenza, prurito alla pelle, calore, freddo, commozione, dolore,

voglia di contatto fisico…: sono segnali di emozioni in atto nel rapporto.

 

Associati a tali sensazioni, poi, possono esserci immagini, ricordi, pensieri…

Ad esempio: sento mal di testa, o fastidio al fegato, e/o vampata di calore, e

contemporaneamente vengono immagini o pensieri di aggressione,

costrizione; magari anche flash di conflitti visti, agiti o subiti.

 

Per riconoscere tali emozioni, esserne consapevoli e non subirle

passivamente, è utile portarle fuori, manifestarle con una postura, un gesto,

un suono, una parola, uno scritto.

Nell’esempio specifico, se l’emozione in gioco è la collera, posso

evidenziarla con lo stringere i pugni, protrarre la mascella, un “grrr…che

rabbia”, “mi sembra ci sia della rabbia”, e, quando l’espressione verbale

rischia di compromettere i rapporti, scrivo.

 

Evidenziata l’emozione in gioco mi chiedo chi è l’emittente e chi il ricevente.

La collera che io sento è mia o del figlio/a. A volte non è chiaro, tuttavia una

verifica interiore può illuminare. Che motivo ho in questo momento di essere

rabbioso//a?

 

- Se non ne riconosco alcuno posso attribuire all’altro la collera e

non farmi travolgere dall’emozione.

Mi sembri arrabbiato, come mai?” Non “ Sei rabbioso”; la definizione

etichetta, imprigiona nel giudizio.

 

Se il/la figlio/a nega di esserlo è preferibile lasciar cadere, non insistere affinché lui/lei ammetta la propria rabbia, sapendo che i figli, per timore di perdere l’affetto e la stima dei genitori, o la stima di sè, a volte negano le emozioni.

 

- Oppure, posso riconoscere che è una mia reazione istintiva, stereotipata a certi atteggiamenti del figlio/a e in tal caso non mi colpevolizzerò, ne lo/la colpevolizzerò, ma prendendo le distanze dall’emozione, adotterò

strategie per uscire da quello schema azione-reazione non più utile.

 

- Oppure ancora, posso riconoscere che la mia rabbia è una difesa all’attacco altrui. Ma da cosa, da quale accusa devo difendermi?

Ad esempio di fronte a un atteggiamento non rispettoso del figlio/a posso

indagare la mia autorevolezza e la capacità del figlio di assumersi le sue responsabilità negli impegni che la crescita comporta.

 

In certi casi una domanda potrebbe essere utile per andare alla radice della rabbia: “Quanto il rapporto genitore-figlio è una relazione autentica, cioè fra due persone, e quanto invece è interferita dalla eccessiva identificazione nel ruolo?”.